giovedì 25 novembre 2010

Acqua vietata causa arsenico per 1 milione d’italiani

Roma, 24 novembre 2010 Comunicato stampa


Legambiente: “Inadempienze e omissioni imperdonabili. Il risanamento doveva essere tempestivo e la popolazione informata subito. Ma non facciamo allarmismi, 59 milioni di cittadini bevono acqua di qualità”

175 milioni di euro per mettere a norma gli acquedotti fuorilegge in 117 comuni

rubinetti chiusi in 128 Comuni

“Il solito pasticcio “all’italiana”. Le deroghe dovevano servire ad affrontare e risolvere definitivamente il problema, peraltro noto, della concentrazione di alcuni inquinanti presenti nelle acque distribuite in alcuni Regioni e invece sono diventate l’ennesimo escamotage per non intervenire. Per fortuna ci ha pensato l’Europa a fermare il perpetrarsi di una pratica dannosa per la salute pubblica. Ora i Comuni coinvolti facciano quello che avrebbero già dovuto fare subito dopo aver chiesto la deroga, ovvero, informare la popolazione e mettere a norma gli acquedotti. Ma non generalizziamo, 59 milioni d’italiani non hanno alcun problema con l’arsenico nelle acque potabili e possono contare su un’acqua di rubinetto garantita, controllata e di qualità”.

Così il responsabile scientifico di Legambiente Stefano Ciafani, commenta la decisione della Commissione Europea di non concedere la terza deroga ai comuni italiani dove l’acqua potabile contiene concentrazioni di arsenico di molto superiori al limite di legge (10 microgrammi per litro).

L’associazione ambientalista in un documento fa il punto della situazione su deroghe e possibili soluzioni, ricordando che su 157 comuni che ne avevano fatto richiesta per tre parametri (boro, fluoruro e arsenico), 128 non l’hanno ottenuta sull’arsenico perché hanno chiesto di innalzare la sua concentrazione nell’acqua dal valore stabilito di 10 microgrammi per litro a 30, 40 o 50 microgrammi per litro, mentre è stata concessa fino a un massimo di due anni a 92 comuni per il fluoruro, a 17 per il boro e a 8 per l’arsenico ma solo fino a 20 microgrammi, seguendo le indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).

“Per rientrare nei limiti – ha aggiunto Ciafani – è sufficiente procedere ad interventi praticabili in pochi mesi, come è già avvenuto in diverse parti d’Italia. Infatti, nel 2003 le richieste di deroga erano state avanzate da 13 Regioni su 10 parametri mentre nel febbraio 2010 la richiesta di rinnovo inviata dall’Italia ha riguardato solo 6 Regioni (Campania, Lazio, Lombardia, Toscana, Trentino Alto Adige, Umbria) per tre parametri. Dunque – conclude Ciafani - la diminuzione delle richieste, sia in termini di territori coinvolti che di parametri dimostra che, con adeguati investimenti, è possibile uscire dalla deroga garantendo ai cittadini acqua potabile nel rispetto della legge”.

Legambiente ricorda che i comuni che hanno ottenuto la deroga dovranno mettersi in regola entro i prossimi mesi e in particolare nelle 10 aree in cui è stata rinnovata sono previsti interventi per oltre 175 milioni di euro, mirati ad abbattere le concentrazioni di arsenico, fluoruro e boro nelle acque e quindi ad evitare di dover ricorrere a nuove deroghe. Gli interventi prevedono o la costruzione di nuovi acquedotti per l’approvvigionamento di acqua da fonti che hanno valori di concentrazione delle sostanze inferiori a quelli previsti dalla legge, oppure la realizzazione di sistemi di trattamento e di miscelazione delle acque.

Le deroghe hanno una durata di tre anni con possibilità di essere rinnovate al massimo per altre due volte. Le prime due deroghe vengono decise dal Ministero della Salute mentre la terza deve avere il via libera da parte della Commissione europea.

Seguono tabelle

Il documento integrale

L’Ufficio stampa Legambiente

(06.86268379-76-53-99)

Comuni interessati dalle deroghe ancora vigenti

Zona di fornitura di acqua (regione/provincia)

Numero comuni

Popolazione interessata

Valore massimo del parametro concesso dalla deroga

Campania

14

457.944


Napoli

14

457.944

2,5 mg/l di fluoruro

Lazio

78

461.539


Latina

1

1000

2,5 mg/l di fluoruro

Roma

17

145.016

2,5 mg/l di fluoruro

Viterbo

60

315.523

2,5 mg/l di fluoruro

Lombardia

6

11.400


Brescia

2

3.000

15 μg/l di arsenico

Lecco

2

1.300*

20 μg/l di arsenico

Pavia

2

7.100

15 μg/l di arsenico

Toscana

19

118.961


Arezzo

2

9.622

20 μg/l di arsenico


2

1.800

3 mg/l di boro

Grosseto

1

100

2 mg/l di boro

Livorno

13

105.431

3 mg/l di boro

Pisa

1

2.008

3 mg/l di boro

Totale

117

1.049.844


*valori massimi per la stagione estiva (turisti non residenti). Popolazione residente: 284

Fonte: elaborazione Legambiente su dati Commissione europea

Deroghe e interventi

Zona di approvvigionamento idrico

Parametro d’interesse

Importo interventi azioni correttive

Termine deroga

Provincia di Brescia

arsenico

€5.813.000

2011

Provincia di Lecco

arsenico

€220.000

2011

Provincia di Pavia

arsenico

€54.000

2010

Provincia di Latina

fluoruro

€9.438.400

2011

Provincia di Roma

fluoruro

€33.299.629

2012

Provincia di Viterbo

fluoruro

€24.000.000

2012

Provincia di Arezzo

arsenico

€25.000

2012

Provincia di Arezzo

boro

€400.000

2012

Provincia di Grosseto

boro

€1.500.000

2010

Provincia di Livorno, Pisa, Siena, Pistoia

boro

€101.106.120

2012

Provincia di Napoli

fluoruro

n.d.

2010

Totale


€175.856.149


Fonte: elaborazione Legambiente su dati Commissione europea

mercoledì 24 novembre 2010

Acqua e sanzioni comunitarie: Italia messa in mora sull'Olona

Milano, 24 novembre 2010

Comunicato stampa


La Lombardia si avvia a pagare pesantissime sanzioni

per la mancanza di depurazione delle acque

Basta con il balletto sulla gestione idrica: è ora di rimboccarsi le maniche

e di sbloccare le risorse per la depurazione e i collettori”

L'Olona, il fiume dell'Expo di Milano, è scandalosamente inquinato per gravi carenze nel suo sistema di depurazione e collettamento: ce lo spiega l'Europa, con l'avvio della messa in mora che, in un paio di mesi, rischia di tradursi in una sentenza di condanna per l'Italia, con conseguenti sanzioni per centinaia di milioni di euro. E non è che l'inizio di una passione che rischia di continuare e di ingigantirsi nei prossimi mesi, per le centinaia di comuni che, in tutta la Lombardia, sono inadempienti agli obblighi di depurazione, e poi di nuovo nel 2015: non tanto per l'expo, ma perchè quell'anno, se non avremo disinquinato Olona, Lambro, Seveso e Mella, si metterà in moto una nuova pioggia di sanzioni comunitarie per inquinamento idrico in violazione della direttiva 2000/60, che impone obiettivi vincolanti di qualità dell'acqua per tutti i corsi d'acqua europei. Entro quella data la Regione e gli Enti Locali, passando per le Autorità d'Ambito, dovranno mettere in campo incisive azioni per il risanamento dei bacini idrografici più compromessi. Nello specifico, il bacino dell'Olona comprende un reticolo di affluenti, tutti moribondi, tra cui il Lura, il Bozzente e, in ultimo, il Guisa: il torrente che taglia in due l'area su cui sorgeranno gli orti planetari di Expo.

“In Lombardia è ora di uscire dalla fase paradossale delle discussioni inconcludenti sulla risorsa idrica: occorre una governance efficace e una autorità di controllo che sovrintenda alle azioni di risanamento dei fiumi più inquinati d'Europa - dichiara Damiano Di Simine, presidente di Legambiente Lombardia - ma soprattutto occorre sbloccare le risorse necessarie a far partire le opere per il risanamento idrico. Sono investimenti colossali, dovranno ripagarsi inevitabilmente con un adeguamento delle tariffe idriche, che oggi sono tra le più basse d'Europa”.

Non è piacevole per nessuno parlare di adeguamenti tariffari in un momento di crisi economica, ma dobbiamo fare i conti con il fatto che la Lombardia ha accumulato gravi ritardi sugli investimenti: paghiamo poco l'acqua non perchè siamo più bravi delle altre regioni Europee, ma perchè non abbiamo sviluppato il programma di investimenti necessario a raggiungere un accettabile livello di qualità delle acque di scarico. E ora le sanzioni non lasciano scampo: meglio fare investimenti piuttosto che pagare le multe comunitarie. Sono del resto i dati pubblicati recentemente dal Consiglio Regionale della Lombardia a illustrare la gravità della situazione: secondo lo studio commissionato dal Consiglio Regionale a IRER, il 22% delle acque di scarico non va a depurazione, e anche quelle depurate lo sono spesso in condizioni del tutto insoddisfacenti per vetustà o insufficienza dei depuratori. In Lombardia c'è anche un 6,1% di utenze che non sono nemmeno collegate a pubblica fognatura, ma sullo stato generale della rete fognaria il rapporto del Consiglio è esplicito: “si tratta di un servizio caratterizzato da scarsa organicità... la vetustà e lo scarso livello di manutenzione ha effetti negativi sull'ambiente, determinando di fatto perdite più o meno rilevanti”.

“E' ora di finirla con il balletto di leggi e decreti che sbagliano obiettivo puntando tutto sulla privatizzazione dei servizi idrici: – conclude Di Simine - non importa tanto chi sia l'operatore che attua la gestione delle reti idriche e fognarie, quel che serve è un'autorità pubblica e trasparente che controlli e presieda all'ormai indifferibile programma di investimenti per il risanamento idrico”.


L'Ufficio stampa Legambiente Lombardia 02 87386480 – 349 1074971

SE FINISCE TUTTO A TARALLUCCI E ACQUA


Con il regolamento attuativo della riforma dei servizi pubblici locali si passa da una norma che bollava come inefficienti tutte le gestioni in house a una disciplina che consentirà a buona parte di quelle stesse gestioni di autoproclamare la propria efficienza e ottenere la deroga. Le società in house così salvaguardate dovranno però rispettare il Patto di stabilità interno. Ovvero non potranno operare. Una proposta per garantire alle imprese, anche pubbliche, maggiori margini di autonomia strategica e di bilancio. Ma con criteri più seri per mantenere l'affidamento.

In settembre è entrato in vigore il regolamento attuativo della riforma dei servizi pubblici locali, quel “decreto Ronchi” che ha scatenato una vasta reazione culminata nella richiesta a furor di popolo dei referendum abrogativi della cosiddetta “privatizzazione dell’acqua”.

DEROGHE ALLA GARA

Il regolamento chiarisce ben pochi dei dubbi che il testo di legge lasciava aperti, soprattutto in materia di gare, limitandosi a prescrivere alcuni contenuti abbastanza ovvi.
In compenso detta una norma che in pratica ribalta il testo legislativo a proposito dei criteri che possono permettere il mantenimento della gestione in house fino alla scadenza naturale. Il testo della legge indicava infatti termini perentori per il decadimento dell’affidamento e l’avvio della gara, consentendo la deroga solo in caso di “(…) situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato”. Una formulazione piuttosto singolare (quali saranno mai le caratteristiche sociali che non permettono un efficace ricorso al mercato? Forse la minaccia di sommosse popolari? E cosa c’entra la geomorfologia del territorio con il mercato?), che comunque sembrava circoscrivere la deroga solo a casi eccezionali.
Il regolamento, invece, allarga in modo deciso la manica, consentendo la deroga a quelle gestioni che si dimostrino “non svantaggiose per i cittadini rispetto a modalità alternative”.
Per dare sostanza a questi criteri, vengono fissati alcuni indicatori: bilancio in utile o in pareggio, destinazione degli utili a nuovi investimenti, tariffe inferiori alla media; incidenza dei costi operativi sulle tariffe inferiore alla media. Dunque, quello che nel testo di legge era un caso eccezionale, diventa una situazione allargabile a buona parte delle gestioni attuali, soprattutto del Nord. Probabilmente non sarà sufficiente a fermare la macchina referendaria, ma certo rappresenta una concessione fondamentale ai sostenitori dell’“acqua pubblica”.
In un precedente intervento avevo espresso perplessità sulla reale efficacia di una gara in cui concorrono sia soggetti terzi rispetto all’amministrazione che bandisce, sia le aziende che da questa sono direttamente controllate.
Una gara siffatta sarebbe una singolarità tutta italiana. Negli altri paesi, e anche nella norma europea, l’impresa pubblica è vista come un’alternativa all’affidamento esterno, non come una concorrente per l’affidamento esterno. Ovunque, si riscontra una significativa coincidenza tra il soggetto cui competono le responsabilità – l’ente locale – e la scelta se “fare in casa” o rivolgersi all’esterno (nel qual caso, la gara è d’obbligo). Va detto anche che questo non è necessariamente un viatico alle gestioni pubbliche: soprattutto dove l’ente locale non può contare su sussidi statali e pagherà direttamente, col proprio bilancio o con le tariffe dei suoi cittadini, il prezzo di inefficienze e dissesti, la scelta di affidamento esterno è praticata molto spesso. Invece di obbligare gli enti locali ad andare in gara in ogni caso, si creano le condizioni perché l'autonoma scelta di andarci o no sia fatta assumendosene pienamente la responsabilità, non solo politica ma anche economica.

EFFICIENZA E QUALITÀ

Alla luce dell’esperienza altrui, la retromarcia del legislatore è stata probabilmente saggia, almeno in linea di principio. Come evitare però che la deroga si risolva in una pace a “tarallucci e acqua”, in cui i gestori autoproclameranno la propria efficienza, contando come in passato sull’ombrello della finanza pubblica per nascondere le magagne, continuando a fare finanza allegra con la garanzia implicita di Pantalone?
I criteri che sono stati adottati nel regolamento sono discutibili.
L’efficienza non si può certificare col fatto di avere costi e tariffe inferiori alla media: in questo modo si premiano le gestioni che hanno la fortuna di operare in contesti favorevoli, non quelle efficienti.
Sarebbe più opportuno che la valutazione dell’efficienza si riferisse a un confronto econometricamente fondato. Il “metodo tariffario normalizzato” prevedeva una formula parametrica che doveva servire proprio a questo: ma quella formula, calcolata nel 1996 a partire da dati molto lacunosi e da allora mai aggiornata, non può rappresentare un riferimento credibile, ed evidentemente lo stesso legislatore dimostra di non fidarsene. Nulla vieta però di raffinare il modello, ricalcolando le formule a partire da dati più realistici e aggiornandole con tempestività.
Il Mtn potrebbe così recuperare la funzione che aveva in origine, ossia vincolare le tariffe solo alla copertura dei costi efficienti; per i gestori che non riuscissero a sostenersi finanziariamente con tali tariffe potrebbero scattare forme di commissariamento e, come extrema ratio, il ritiro anticipato dell’affidamento e la gara.
Quanto all’equilibrio della gestione, limitarsi al conto economico (ossia all’esistenza di un utile netto) è fuorviante. In un settore in cui una parte significativa delle poste a bilancio sono ammortamenti e accantonamenti, ossia poste congetturali, gli spazi per la “contabilità creativa” sono enormi, mentre l’elevata esposizione finanziaria le rende assai vulnerabili al costo del capitale e ai fatti che possono condizionare la formazione dei margini operativi. Col risultato che aziende in utile fino all’anno prima possono trovarsi pochi mesi dopo sull’orlo del dissesto (per una storia illuminante si veda il mio “Buchi nell’acqua”).
Dovrebbero invece essere costruiti indicatori di solidità finanziaria che dimostrino la capacità dell’azienda di sostenere i suoi impegni nei confronti del mercato, monitorando con attenzione l’evoluzione dell’indebitamento, lo sfruttamento della leva finanziaria e il rapporto tra livelli di indebitamento e margini operativi.
I criteri prescelti tacciono poi completamente della qualità del servizio. In un contesto nel quale ancor oggi una buona parte delle gestioni è addirittura priva di carta del servizio, e tra quelle che ce l’hanno molto spesso gli impegni sono generici e non soggetti a verifiche né sanzioni, la norma del regolamento suona come un via libera alla rincorsa verso il basso della qualità. Alla salvaguardia dovrebbero essere invece ammesse solo le gestioni in grado di offrire un livello di qualità almeno pari ai minimi e che dimostrino la capacità di attuare i programmi di investimento. Non basta “prevedere” l’adozione della carta del servizio, come fa il regolamento; si potrebbe invece riprendere quanto a suo tempo previsto dal disegno di legge Lanzillotta: la carta diviene parte integrante del contratto e il suo monitoraggio e sanzione deve essere un compito fondamentale del soggetto affidante.
In parallelo, l’esperienza di altri paesi, dove la gestione pubblica funziona e l'autosufficienza economica è presa seriamente, mostra che percorsi di efficientamento significativi possono essere stimolati anche usando la carota. Il benchmarking istituzionale, ad esempio, pare abbia stimolato notevolmente l’iniziativa delle gestioni per recuperare margini di efficienza. Anche l’elaborazione di confronti comparativi rientrava tra le competenze del Coviri, ma non è mai stata seriamente effettuata a causa del debole profilo istituzionale e delle scarse risorse a disposizione. Solo di recente la Commissione ha lanciato un sistema informativo che dovrebbe raccogliere in modo puntuale i dati economici, finanziari e gestionali; a due anni di distanza lamenta un numero di risposte intorno al 20 per cento, ma non dispone di alcun potere sanzionatorio per costringere le imprese a rispondere.
Come si vede, per tutte e quattro le nostre proposte è fondamentale l’esistenza di un regolatore di settore – tema su cui il governo ha lasciato intravedere qualche apertura, ma solo a parole.
Stiamo passando invece da una norma “castigamatti”, che bollava tutte le gestioni in house come inefficienti a prescindere, a un regolamento “libera tutti” che crea i presupposti perché chiunque, tirando un po’ la norma dalla sua parte, possa affermare di meritare la deroga. In compenso, le società in house così salvaguardate dovranno rispettare il patto di stabilità interno – ossia, in pratica, non potranno indebitarsi, oltre a dover rispettare una serie di vincoli tipici del sistema pubblico, dal controllo della Corte dei conti all’obbligo di bandire gare e concorsi. Come dire che potranno restare, ma non potranno operare.
Con la nostra proposta, le imprese anche pubbliche potrebbero godere di maggiori margini di autonomia strategica e di bilancio, controbilanciata però da criteri più seri per mantenere l’affidamento.

Fonte: La Voce.info - articolo di Antonio Massarutto 23.11.2010

martedì 23 novembre 2010

Acque all'arsenico: l'Ue chiude i rubinetti di 128 Comuni italiani

Documento di Bruxelles nega al ministero della Salute la deroga ai limiti per la potabilità. E impone ordinanze per vietarne l'uso alimentare. Lazio regione più colpita

ROMA - Il «niet» giunto dall’Unione Europea è tassativo: niente deroga all’ innalzamento dei limiti chiesti dall’Italia sulla concentrazione di arsenico nelle acque a uso alimentare. Perchè in taluni casi possono provocare malattie, perfino l'insorgere del cancro. Scatta ora una guerra contro il tempo per evitare che a casa di migliaia di famiglie i rubinetti possano restare chiusi a seguito di una possibile raffica di ordinanze.
Sono ordinanze richieste da Bruxelles, che potrebbero proibire l’uso potabile dell'acqua. L’intimazione indirizzata il 28 ottobre al ministero della Salute dall’Ufficio Ambiente della Ue apre un pesantissimo problema sanitario in 128 comuni dello Stivale divisi tra 5 regioni.

LE CITTA’ IN EMERGENZA - In testa c’è il Lazio, con 91 città e borghi (sparsi tra le provincie di Roma, Latina e Viterbo) dove i sindaci, a meno di soluzioni miracolose dell’ultimo istante, potrebbero essere costretti a firmare un provvedimento per vietare di bere l’acqua.
la Toscana, con 16 località; altre 10 sono in Trentino, 8 in Lombardia e 3 in Umbria. Tutte con lo stesso problema: negli acquedotti c’è una concentrazione elevata di arsenico, talvolta con valori massimi di 50 microgrammi per litro mentre la legge ne consente al massimo 10. Quantitativi che sarebbero fuori norma – ha spiegato l’Italia in un dossier spedito alla Ue - per cause «naturali»: in qualche modo originati da stratificazioni geologiche di origine lavica, come nel caso dei Castelli Romani e del Viterbese.

LA UE: POSSIBILE RISCHIO CANCRO - Giustificazioni inascoltate però dall’Unione Europea che – accogliendo il ricorso solo per i meno preoccupanti borio e fluoruro - non vuole più, nelle acque potabili, quelle cifre superiori ai 10 microgrammi di arsenico per litro. Il motivo è che «valori di 30, 40 e 50 microgrammi» possono determinare «rischi sanitari, in particolare talune forme di cancro». Ecco perché le deroghe, soltanto per tempi limitati, possono essere richieste sino a concentrazioni di 20 microgrammi per litro.

IN DIFFICOLTA’ 250 MILA FAMIGLIE - A febbraio l’Italia – che ha recepito le direttive comunitarie in una legge sulle acque potabili in vigore dal 2001 - ha chiesto di innalzare i limiti consentiti temporaneamente, appunto, a 50. Ma la Ue ha bocciato la domanda facendo esplodere un problema che, stando al documento ufficiale indirizzato al ministero della Salute, riguarda i rubinetti di circa 250 mila famiglie.
Ad essere coinvolte sono grandi capoluoghi e paesi di poche decine di anime: per restare al Lazio, gli «utenti interessati» a Latina sono 115.490, ad Aprilia 66.624, a Viterbo 62.441 e poi ancora 10 mila ad Albano e 18 mila a Sabaudia. In Toscana acque a rischio in località vacanziere come Piombino, Cecina, Porto Azzurro e Porto Ferraio, ma anche Foiano della Chiana, Montevarchi, Campo nell'Elba, Rio Marina, San Vincenzo. Problemi anche a Orvieto in Umbria, mentre a Solda di Fuori, in Alto Adige, sono «solo» 25 gli abitanti che potrebbero ritrovarsi senz’acqua.

ANCHE IN LOMBARDIA E TRENTINO - Acque non salubri vengono identificate nella tabella del documento Ue nelle province di Mantova (Marcaria, Roncoferraro, Viadana), Sondrio (Valdidentro e Valfurva) e Varese (Maccagno, Sesto Calende, Dumenza). Il comune di Cava Manara, in passato con problemi, ora ha acque «perfettamente potabili» grazie all’apertura di nuovi pozzi. In Trentino, risultano non a norma le acque di Laste/Cantanghel, Canal San Bovo, Fierrozzo, Frassilongo.
Quanto alla Campania, 14 comuni - non gravati dall'allarme arsenico - hanno ottenuto la deroga per ciò che riguarda il floruro: si tratta di Boscotrecase, Cercola, Ercolano, Ottaviano, Pollena Trocchia, Portici, S. Anastasia, San Giorgio a Cremano, S. Giuseppe Vesuviano, San Sebastiano al Vesuvio, Somma Vesuviana, Terzigno, Torre del Greco, Volla.

ALLERTATE LE PREFETTURE - Quel che succederà adesso ancora non è chiaro. Contatti frenetici sono in corso tra il ministero della Salute e gli assessorati all’Ambiente delle Regioni coinvolte. Dove il problema è più sentito - appunto come nel Lazio - Asl e Comuni interessati al possibile divieto si sono incontrati per delineare una strategia comune, allertando anche le Prefetture. E’ stato chiesto un pronunciamento all’Istituto superiore di sanità per stabilire le linee guida cui dovranno attenersi le autorità mentre la Regione ha preparato una specie di vademecum che presto sarà distribuito presso scuole, uffici pubblici, ospedali, aziende.

«FILTRI» NEGLI ACQUEDOTTI - In sostanza: dovrà essere data la massima informazione all’utenza riguardo la nuova regolamentazione. Poi la responsabilità passerà ai sindaci che dovranno valutare se firmare le ordinanze di divieto. Nel frattempo Acea, Regione e Commissariato alle acque potabili stanno sistemando delle specie di «filtri» per abbassare la presenza dell’ arsenico e miscelare acque provenienti dagli acquedotti come quello del Simbruino – prive di arsenico – con quelle raccolte dai pozzi, i principali accusati per i valori fuori norma.

LA SOLUZIONE DEPURATORE DOMESTICO - «Provvedimenti allo studio da tempo – è l’assicurazione giunta al termine della riunione –, ma che adesso devono essere accelerati per via della normativa Ue che nessuno si aspettava così immediata». In questa situazione convulsa non manca chi si arrangia da sé, tanto che nei dintorni di Frascati, a sud di Roma, un consorzio di cittadini ha pensato bene di comperare un depuratore per l’arsenico.

Fonte: Il Corriere della Sera.it - 22/11/2010 - articolo di Alessandro Fulloni

Dall'Ue stop alle deroghe sull'arsenico nelle acque potabili

No all’innalzamento dei limiti di arsenico nelle acque a uso alimentare. A febbraio scorso l’Italia aveva chiesto di portare a 50 il parametro consentito. Oggi l’Unione europea nega al ministero della Salute la deroga ai limiti per la potabilità per un preciso motivo: “valori di 30, 40 e 50 microgrammi possono determinare rischi sanitari, in particolare talune forme di cancro”. Ecco spiegato perché le deroghe possono essere richieste fino a concentrazioni di 20 microgrammi per litro e solo per tempi limitati.
Quello che si rischia ora è una serie infinita di ordinanze richieste da Bruxelles che potrebbero proibire l’uso potabile dell’acqua e mettere in ginocchio 128 comuni d’Italia sparsi in 5 regioni, per un totale di 250 famiglie. In testa c’è il Lazio con 91 comuni, tra cui Latina e Viterbo, seguita dalla Toscana con 16 centri.
Cosa succederà ora? Ministero della Salute e assessorati all’Ambiente delle regioni coinvolte cercano una strategia comune, allertando le Prefetture e chiedendo un pronunciamento dell’Istituto superiore di sanità.

Fonte: Redazione sito wellMe.it - 23 Novembre 2010

UN PAESE COLABRODO MA È SALVA LA QUALITÀ


Perdiamo più del 30 per cento e otto milioni di italiani hanno un servizio scadente.

Liscia, gassata, di rubinetto o depurata : l’acqua da diritto basilare è diventata nella realtà un bene di consumo come tanti, una merce da vendere sul mercato globale. Il Decreto Ronchi, convertito lo scorso novembre in Legge, prevede all’articolo 15 la liberalizzazione dei servizi pubblici locali, con l’obiettivo di promuovere la concorrenza. Che cosa accadrà ai nostri acquedotti pubblici con l’obbligo di cedere fino al 70 per cento delle azioni entro il 2015? In pratica, i Comuni sono obbligati a privatizzare il servizio idrico e molti temono vertiginosi aumenti delle tariffe, mentre nel Paese sta crescendo un vasto movimento di protesta. In queste pagine, oltre a spiegare quale sarà il destino di questo essenziale servizio pubblico, impareremo a conoscere meglio un bene comune al centro di troppi interessi economici.

Otto milioni di italiani che rimangono a secco e non solo d’estate. Il 30 per cento del Belpaese che scarica il contenuto delle fogne direttamente nei fiumi e nel mare senza il passaggio nel depuratore. Una rete idrica colabrodo con perdite medie del 35 per cento e punte di oltre il 50 per cento. È la radiografia di un Paese che fa acqua da tutte le parti. Un’emergenza ignorata che ci costerà oltre 60 miliardi di euro distribuiti in 30 anni. Soldi che sborseremo con le bollette sempre più salate, tanto che il Coviri (Comitato di vigilanza sulle risorse idriche) ha calcolato che pagheremo come minimo 115 euro in più a testa ogni anno per 20 anni. Una bolletta più cara di 460 euro all’anno per una famiglia di quattro persone. Un servizio dunque che ci costerà sempre di più, secondo alcuni anche per effetto della privatizzazione, ma al di là dei milioni di italiani che durante l’estate hanno una dotazione media a persona che scende ai livelli del Congo, cioè sotto i 50 litri al giorno, com’è la qualità di ciò che beviamo?

«Ottima», esordisce Massimo Ottaviani, direttore del Reparto di igiene delle acque interne dell’Istituto superiore di sanità (Iss), «i controlli sono effettuati con regolarità dalle Arpa, dalle Asl e dagli stessi gestori». Una qualità garantita da una legislazione severa. «Anche se la responsabilità del gestore si arresta al contatore». Spesso sono le condutture dei privati a nascondere qualche insidia. «In linea di massima non abbiamo riscontrato problemi», rassicura il dirigente dell’Iss. «Da una recente ricerca, sono emersi pochi casi critici per il superamento del limite previsto per il nichel e il piombo, ma nulla di drammatico».

Tabella: dove si beve meglio.

Semmai il problema più serio potrebbe essere rappresentato dalle deroghe previste dalla legge per quelle zone del Paese che non riescono a rispettare i parametri fissati dal Decreto legislativo n. 31 del 2001. Deroghe che erano state concesse in via temporanea per due trienni consecutivi dal ministero della Salute e scadute il 30 aprile del 2009. Di conseguenza, l’acqua di alcune zone delle Province autonome di Trento e di Bolzano e delle Regioni Campania, Lazio, Lombardia, Toscana e Umbria avrebbe dovuto essere dichiarata non "potabile". Ma un provvidenziale Decreto ministeriale del 30 dicembre 2009, firmato da Ferruccio Fazio, ha "derogato" le deroghe in attesa del pronunciamento della Commissione europea. Così, gli abitanti di alcuni Comuni del Centro-Nord continuano a bere acqua con un contenuto di arsenico che supera abbondantemente il limite di 10 microgrammi per litro. «È giusto essere prudenti», dice Ottaviani, «ma parliamo di un rischio remoto, considerando un consumo di due litri al giorno per 70 anni... semmai il problema è un altro: certi allarmi sono strumentalizzati dalla concorrenza, spesso sleale: chi vende l’acqua minerale».

A CHI SPETTANO I CONTROLLI?

  • Che significa potabile?

L’acqua per definizione si dice potabile quando è limpida, trasparente, incolore, non contiene sostanze dannose alla salute né batteri patogeni e una quantità di sali equilibrata. Il D.lgs. n. 31 del 2001 ha esteso il concetto di potabilità alle acque che hanno un uso igienico o, più in generale, domestico.

  • Come è garantito il rispetto di un buon livello di qualità?

In primo luogo vengono selezionate le risorse idriche che potranno essere usate per produrre acqua potabile, scartando quelle fonti che, per la presenza di massicci insediamenti produttivi, risultano eccessivamente inquinate. Il D.lgs. n. 31 del 2001 detta i requisiti di qualità delle acque destinate al consumo umano, qualunque ne sia l’origine, sia che vengano prelevate alla fonte, sia che vengano distribuite da acquedotti pubblici.

  • Cosa si intende per acque destinate al consumo umano?

Le acque, trattate o no, che possono essere bevute, usate per la preparazione di cibi, bevande o per altri usi domestici, a prescindere dalla loro origine, siano esse fornite tramite una rete di distribuzione, mediante cisterne, in bottiglie o in contenitori.

  • Chi effettua i controlli sulla qualità dell’acqua?

    I controlli possono essere interni ed esterni. Quelli interni sono effettuati dal gestore che fornisce il servizio idrico, che ha il dovere di conoscere le caratteristiche dell’acqua che eroga ed eventualmente adottare interventi in caso di variazioni della qualità. I risultati dei controlli devono essere conservati per almeno cinque anni, per un’eventuale consultazione da parte dell’amministrazione che effettua i controlli esterni. Quest’ultimi sono svolti dall’Azienda sanitaria locale territorialmente competente. Il controllo viene effettuato per verificare che l’acqua analizzata risponda ai requisiti richiesti e per applicare le eventuali sanzioni previste dalla legge.

    • Cosa succede se dopo un controllo l’acqua non risponde ai requisiti di legge?

    L’Autorità d’ambito, d’intesa con l’Asl e con il gestore che fornisce il servizio idrico, individua tempestivamente le cause per cui l’acqua non risulta conforme ai requisiti e indica i provvedimenti necessari a ripristinare la qualità, tenendo conto del potenziale pericolo per la salute. Qualora non vengano superati i parametri richiesti per legge, ma per qualche motivo l’acqua presenti un potenziale pericolo, l’Asl informa l’Autorità d’ambito che vieta la distribuzione o ne limita l’uso. Oppure vengono adottati altri provvedimenti idonei a tutelare la salute umana.

    • Che differenza c’è tra l’acqua minerale e l’acqua potabile?

    Per la legge sono due prodotti diversi, in realtà l’unica sostanziale differenza è la clorazione delle acque potabili. Dal 2004 anche le acque minerali possono essere sottoposte a trattamento con ozono per abbassare il livello di arsenico o di manganese. Purtroppo questo trattamento genera bromati, sostanze potenzialmente pericolose per la salute.

    UN MERCATO IDRICO CHE FA GOLA

    60,52 miliardi di euro i fondi necessari per rimettere in sesto la rete idrica nazionale, da spendere in 30 anni
    6,116 miliardi di euro
    i ricavi ottenuti dalla vendita di acqua a fronte di investimenti per 1,109 miliardi di euro.

    Da dove arriva ciò che beviamo?
    53%da fonti sotterranee
    37% da sorgenti
    10% da fiumi e laghi

    Fonte: Famiglia Cristiana - sommario 12 del 21.03.2010 - autore Giuseppe Altamore

    venerdì 19 novembre 2010

    Water Conference 2010 - Terza Conferenza Internazionale sull’Acqua nelle Alpi.


    Nell’ambito delle attività della Convenzione delle Alpi, il 25 e 26 novembre 2010 si terrà a Venezia, presso la Venice International University, la Water Conference 2010 - Terza Conferenza Internazionale sull’Acqua nelle Alpi.

    La Water Conference 2010, secondo quanto stabilito in sede internazionale, sarà organizzata dal Ministero dell’Ambiente italiano e rappresenterà un evento internazionale rilevante nell’ambito della Convenzione delle Alpi, avente lo scopo di divulgare e condividere con le istituzioni gli esiti del “Gruppo di Esperti sull’Acqua nelle Alpi” in parte sintetizzati nella “Seconda Relazione sullo Stato delle Alpi - l’Acqua e gestione delle acque”.

    La Conferenza costituirà inoltre il primo momento di condivisione degli approfondimenti realizzati dalla “Piattaforma Acqua” della Convenzione delle Alpi in tema di piccolo idroelettrico e Piani di Gestione di Distretto in ambito alpino.

    Data l’importanza dell’evento, la Conferenza sarà preceduta da tre workshop preparatori:
    - il primo, intitolato “Il rischio idrogeologico in ambiente alpino”, si terrà a Trento il 29
    settembre 2010;
    - il secondo, intitolato “I Piani di gestione di distretto quali strumento di tutela
    dell’ecosistema montano alpino”si svolgerà il 13 ottobre a Torino;
    - il terzo e ultimo Workshop preparatorio si terrà a Sondrio il 27 ottobre p.v. ed avrà per titolo “La produzione di energia idroelettrica: aspetti ecologici, economici e sociali”.

    Fonte: Segreteria Tecnica della Water Conference 2010

    giovedì 11 novembre 2010

    Maxi-multa Ue da 4 miliardi in arrivo per i comuni lombardi inadempienti su fogne e depuratori

    Maxi-multa Ue da 4 miliardi in arrivo per i comuni lombardi inadempienti su fogne e depuratori

    MILANO - Per i comuni della Lombardia, il 2010 sta per chiudersi con una brutta notizia. In 190 agglomerati urbani, che raggruppano oltre 400 comuni, stanno per arrivare una serie di maxi multe – 20 milioni minimo – da parte dell'Europa, a causa della depurazione inadeguata delle acque e la mancanza di trattamenti ecologici nelle reti fognarie.

    La procedura d'infrazione, avviata un paio d'anni fa dalla Commissione europea, è andata avanti arrivando dritta alla Corte di giustizia europea, che nel giro di un semestre dovrebbe emettere la sentenza. In Lombardia dovrebbe arrivare, come minimo, una super sanzione da quasi 4 miliardi.

    I comuni destinatari sono accusati di non aver fatto gli investimenti necessari per la depurazione delle acque (da un punto di vista formale in Italia i soggetti responsabili sono stati finora le Ato, consorzi formati dai comuni delle varie province).

    Lo scorso anno il Sole 24 Lombardia ha pubblicato l'elenco dei 134 comuni lombardi che, nel 2009, risultavano in procedura d'infrazione europea (si veda il Sole 24 Ore Lombardia del 4 novembre 2009). Quest'anno le amministrazioni comunali, come risulta al nostro giornale da fonti ministeriali, si sono più che triplicate, e dalla procedura d'infrazione si è già passati all'avvio del processo vero e proprio.

    Il numero dei comuni è peraltro destinato a crescere, dato che finora la Commissione europea ha preso in considerazione solo i centri al di sopra dei 10mila abitanti. Dal 2011 si dovrebbe procedere quindi con i centri più piccoli.

    L'Italia nei prossimi mesi sarà ovviamente chiamata a difendere a Lussemburgo i propri territori, accusati di non aver monitorato lo stato delle acque reflue. Ma ai tecnici ministeriali appare già evidente che la partita è praticamente persa: l'agglomerato urbano che non ha effettuato correttamente la depurazione dovrà pagare 20 milioni per ogni reato commesso, più 200mila euro al giorno dal momento della sentenza fino alla realizzazione delle opere richieste. La multa verrà divisa in ogni agglomerato tra i comuni che lo compongono.

    Il documento dell'Ue dovrebbe essere spedito in questi giorni dal ministero all'Ambiente alla regione Lombardia. Il Pirellone a sua volta preparerà la lista completa di agglomerati e centri urbani responsabili dell'infrazione, girando a loro le sanzioni. È facile tuttavia ipotizzare che i comuni difficilmente saranno in grado di pagare la pena pecuniaria, ed è quindi probabile che si rivolgeranno alla regione. La Lombardia risulta la regione più inquinata della Pianura Padana e una delle più colpite dal problema in Italia.

    I problemi segnalati sono di due tipi: depurazione inefficiente o assenza di collettamento per le fognature. Quest'ultimo problema è particolarmente grave perché sta a significare che le acque delle fogne arrivano direttamente nei fiumi e nei laghi senza filtraggio. Alcuni comuni rientrano in entrambe le liste.

    Tra gli insediamenti meno virtuosi spiccano quelli situati lungo il Po. Le province maggiormente coinvolte sono Milano e Monza Brianza, Varese, Bergamo e Lecco. A produrre le sostanze più inquinanti sono soprattutto le utenze civili, seguite dall'attività agricola, sui cui le amministrazioni comunali e le Ato non sono intervenute come chiedeva l'Europa.

    L'Ue chiedeva agli Stati membri, dal 1991, di adeguarsi entro il 1998 alla normativa sulle acque reflue dotandosi di impianti efficienti e adeguati collettamenti. Alcuni territori italiani, tra cui la Lombardia, hanno però accumulato 10 anni di ritardo, spingendo così l'Ue ad avviare una procedura d'infrazione contro l'Italia, cioè una sorta di richiamo con tanto di monitoraggi. Poi, dato che i controlli hanno dimostrato che nulla nel frattempo veniva fatto, ecco che pochi giorni fa la Commissione europea ha deciso di rinviare l'Italia davanti alla Corte di giustizia.

    L'Europa tecnicamente sanziona l'Italia per gli agglomerati fuori legge, e le comunicazioni arrivano al ministero all'Ambiente italiano. L'Italia, a sua volta, avvalendosi di una legge nazionale, scarica il problema alle regioni. La Lombardia, con una sua legge regionale, gira quindi oneri e sanzioni alle Ato e ai comuni che compongono gli agglomerati. Ma siccome le Ato, con la nuova legge sul servizio idrico, scompariranno (si legga articolo a pagina 5), le sanzioni potrebbero passare ora alle province.

    Si calcola che in Lombardia la spesa complessiva per realizzare le infrastrutture per la depurazione si aggirerebbe intorno ai 2 miliardi. Le regioni su questo tema non hanno un potere coercitivo, ma solo di coordinamento e indirizzo.

    Nel tempo le Ato sono state sollecitate dal Pirellone a realizzare le opere. Ma un po' a causa del frastagliamento del settore, gestito da tante micro società, un po' perché sia le Ato che le stesse società di gestione, di proprietà pubblica, non hanno mai inseguito criteri di rigida managerialità, il risultato è che oggi le acque della Lombardia sono tra le più inquinate d'Europa.

    I NUMERI

    20milioni - La sanzione europea
    Con la sentenza della Corte di giustizia europea, i comuni in infrazione per lacune nella depurazione delle acque, dovranno pagare una multa di 20milioni per ogni infrazione commessa.

    200mila - Euro di penale
    Oltre all'eventuale multa, l'Ue chiede in aggiunta una penalità di 200mila euro per ogni giorno di ritardo dal momento della condanna, nella realizzazione delle opere di depurazione

    2 miliardi - Il costo degli interventi
    Si calcola che sia questa la spesa complessiva per i lavori di messa a norma su tutto il territorio regionale

    134 - Infrazione nel 2009
    È il numero dei comuni lombardi che risultavano in infrazione a fine 2009. Qualcuno, lo scorso anno, aveva già ricevuto l'avviso. Quest'anno dovrebbero essercene un centinaio in più


    Fonte: Il Sole 24 ore - articolo di Sara Monaci - 4 novembre 2010

    SICCITA’: SCORTE IDRICHE AI MINIMI STORICI, MANCANO 2 MILIARDI DI METRI CUBI D’ACQUA

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