lunedì 20 giugno 2011

E ORA CHI PAGA PER L'ACQUA?

Il sì al secondo referendum sull'acqua dice che le tariffe idriche non devono remunerare il capitale. E le imprese che gestiscono il servizio ora bloccano gli investimenti. Miliardi di investimenti all'anno per molti anni sono a rischio. Nell'immediato, serve almeno una norma interpretativa transitoria "salva-investimenti". A regime, si deve scegliere se rinunciare agli investimenti o aumentare le imposte per salvare il settore. L'alternativa è tradire un'altra volta la volontà popolare.

Il secondo dei referendum sull’acqua ha deciso che il prezzo dell’acqua (più precisamente, la tariffa per il servizio idrico integrato, che include fognatura e depurazione) non dovrà più includere quella componente per la “remunerazione del capitale investito”, che la legge prevedeva. La tariffa idrica non servirà più a generare gli odiati profitti.
La stupenda conseguenza di questa decisione è che da un giorno all’altro un paio di miliardi di investimenti pronti a partire sono bloccati a tempo indefinito. Imprese quali Acea, Hera e Iren, controllate da comuni ma quotate in borsa, hanno chiarito quanto era da tempo piuttosto ovvio. Se non c’è una ragionevole garanzia della remunerazione degli investimenti, gli amministratori di queste imprese rifiutano di investire. Come dar loro torto? Essi sono responsabili del denaro dei loro azionisti, anche quelli privati, e sarebbero legalmente responsabili di una cattiva gestione.

DUE POSSIBILITÀ

Cosa può succedere, a questo punto? Fino all’altro giorno i piani di investimento previsti per il settore ammontavano ad una media di due miliardi l’anno per i prossimi trenta anni. Questi investimenti, richiesti dalle “autorità di ambito” pubbliche, sarebbero serviti a migliorare acquedotti, fognature e impianti di depurazione. Per effettuarli serve ovviamente capitale (debito o equity) e chi lo porta (i prestatori o gli azionisti) richiede una remunerazione. Che avveniva, prima del referendum, con aumenti dei prezzi (che sono, come è noto, tra i più bassi d’Europa).
Ora, una prima possibilità è che questi investimenti semplicemente non vengano effettuati. D’altronde oltre l’80 per cento della popolazione è già servita da fognature, e gli utenti le cui acque sono trattate da un depuratore sono circa il 70 per cento. Possiamo accontentarci? O forse un paese civile meriterebbe di meglio? O forse il nostro ambiente meriterebbe maggiore attenzione? Per non parlare poi delle perdite del nostro sistema di acquedotti, e della necessità di effettuare manutenzioni... Effettivamente, l’idea che tutti gli investimenti necessari non vengano effettuati repelle. Ma se vogliamo fare gli investimenti, chi paga?
Una seconda strada parte dalla constatazione che se non pagano i consumatori, pagheranno i contribuenti. Questi investimenti potrebbero quindi essere remunerati tramite specifiche risorse dei comuni. Si potrebbe riprodurre quanto avviene nel trasporto locale, ove parte dei ricavi dei gestori del servizio deriva da trasferimenti pubblici. Oppure i comuni potrebbero gestire e investire in prima persona (la soluzione preferita da molti “referendari”); ma anche le risorse pubbliche hanno un costo, quanto meno il costo-opportunità misurabile con i minori servizi che potranno erogare altrove poiché quelle risorse saranno impegnate in progetti idrici. E anche se si cercassero nuove risorse (tramite strumenti finanziari specifici quali i city bond) qualcuno dovrebbe pagarne gli interessi: ad ogni uscita per i comuni corrisponderà – presto o tardi – un maggiore carico fiscale.
Siamo in un periodo di grave crisi fiscale dello stato che si ripercuote sulle amministrazioni locali, alle quali sia le migrazioni, sia il difficile periodo dell’economia pongono richieste sempre nuove. Quale maggioranza parlamentare, odierna o futura, voterà una legge che conduca a riduzioni dei servizi pubblici o ad aumenti delle imposte locali?

UNA TERZA VIA TRA SCILLA E CARIDDI?

Credo che la risposta spetti a chi ci ha infilato in questo vicolo cieco, tra investimenti che servono e risorse pubbliche che non ci sono. Molti dei promotori del referendum sono “duri e puri”, entusiasti dell’intervento pubblico, e pronti a proporre senza riserve un aumento delle imposte. Ma altri sono saliti sul carro del referendum per calcolo politico. Colpito Berlusconi, ora guarderanno alla realtà dei fatti. Esercizio doveroso, ma anche pericoloso: non sarebbe la prima volta che il Parlamento ha tranquillamente ignorato i risultati di un referendum. Ovvero: una volta usato il referendum a fini politici “trasversali”, qualcuno si porrà il problema di come evitarne le conseguenze dirette.
Già qualcuno comincia a dire che in realtà la legge enumerava criteri tassativi, così che il referendum avrebbe abrogato l’obbligo di includere la remunerazione del capitale tra le componenti della tariffa. Ma nessuno vieta che una autorità pubblica decida invece autonomamente di prevederla comunque. Altri accennano invece a sostituire la remunerazione del capitale con la remunerazione della “attività industriale”. Concetto sfuggente, che consentirebbe di remunerare le imprese senza contraddire la forma. Ma è questo che il popolo italiano intendeva dire quando si è espresso? Mi permetto di avere dubbi in proposito.
Altri indicano che il problema vero è “il profitto”, ovvero la remunerazione del capitale di rischio, e non l’interesse, che remunera il capitale a prestito. Peccato che il referendum abbia abrogato il riferimento alla remunerazione di qualunque forma di capitale, e interpretare la volontà popolare oltre il suo aspetto “letterale” sia un esercizio impossibile. Neppure la remunerazione del capitale di prestito potrebbe essere messa in tariffa…
Qualcuno forse noterà che nessuno ha abrogato l’art. 117 del Testo unico degli enti locali (DLgs 267/2000) che dice che uno dei criteri per il calcolo della tariffa di tutti i servizi pubblici locali è “l’adeguatezza della remunerazione del capitale investito, coerente con le prevalenti condizioni di mercato”. Finché nessuno abrogherà anche questa norma, immagino che occorra applicarla. Ma – di nuovo – questo è coerente con quanto “il popolo” ha detto?
Infine, qualcuno cercherà di interpretare il termine “remunerazione” del capitale, distinguendolo dal suo “costo”, e ricordando che tutti i costi devono essere coperti. Vero. Ma, purtroppo, il costo dei fattori produttivi non è altro che la remunerazione dovuta a chi fornisce tali fattori: il costo del lavoro è la remunerazione del lavoratore, e lo stesso vale per il capitale. Parliamo di sinonimi: pensare che il referendum abbia cancellato la remunerazione del capitale mantenendo la copertura del suo costo appare difficile da capire. Anche se il problema sta nel manico: la norma parzialmente abrogata parla di remunerazione del capitale da una parte, e dei costi come se fossero altro. Gli altri modi di pagare per gli investimenti sarebbero sofismi, ma questo almeno una base fattuale la avrebbe. Ma se così fosse, attenzione: il referendum sarebbe stato semplicemente inutile.

IERI, OGGI E DOMANI

Sui contratti in essere, non dovrebbe succedere nulla. Sui contratti che stanno per essere siglati, nelle more del nuovo regime, il Governo ha il dovere di dire alle imprese cosa succede; e credo sia ragionevole pensare che in qualche modo si possa continuare con il vecchio regime (invocando la copertura dei costi, o qualcos’altro) almeno per un periodo transitorio, di durata limitata. Senza questo, gli investimenti si bloccheranno a tempo indefinito, e tutti hanno da perdere da una situazione del genere.
Quanto alla soluzione “a regime”, questa pessima politica ci lascia con un paradosso. Se non vogliamo tradire la volontà popolare, rischiamo di uccidere un settore vitale. Ma tradire la volontà popolare (che piaccia o meno) non sarebbe peggio? Ai nostri sagaci politici l’ardua sentenza.

Fonte: Lavoce.info articolo di Carlo Scarpa

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