Idroelettrico: mai come in questo momento
economico/climatico/tecnologico una tecnologia rinnovabile ha suscitato pro e
contro. L’elenco sia di detrattori che delle opportunità è lungo. Da una parte
c’è la necessità di avere più energia – anche in Europa visto il
decommissioning legato al nucleare – dall’altra bisogna abbattere le emissioni.
Soprattutto vanno evitati i danni ambientali e anche sociali. Una recente
pubblicazione a cura della rivista Nature Sustainability ha fatto ricorso a uno
studio del Politecnico di Milano, coordinato dal professor Andrea Castelletti,
che in collaborazione con l’Università di Berkeley punta a dimostrare come,
pianificando strategicamente la costruzione di dighe, sia possibile aumentare
la produzione di energia idroelettrica e allo stesso tempo limitare l’impatto
sull’ecosistema fluviale. Il gruppo di
ricerca del Politecnico, composto anche da Simone Bizzi e Rafael Schmitt, ha
studiato il caso del bacino del 3S (Se Kong, Se San e Sre Pok), un tributario
del fiume Mekong e sorgente primaria di sabbia per il delta del Mekong. Siamo
dall’altra parte del mondo, ma alcuni temi fanno letteratura. “La nostra tesi”
spiega Castelletti, professore associato in gestione delle risorse naturali “è
che la pianificazione diga per diga oggi dominante debba essere sostituita da
una pianificazione strategiche che stabilisca a livello dell’intero bacino
fluviale per verificare quante dighe sia sostenibile costruire e dove e come
debbano essere costruite“. Ovviamente il discorso si può allargare a gruppi di
bacini come per i Balcani dove una nuova ondata di idroelettrico sembra essere
in pianificazione e costruzione. “Oggi abbiamo gli strumenti matematici,
tecnici e disponibilità di potenza di calcolo a sufficienza per poter sostenere
un cambio di paradigma nel modo in cui si progetta la costruzione di
sbarramenti idroelettrici“. Quindi, professor Castelletti, quali sono gli
aspetti ambientali da tenere in massima considerazione oggi in fase di
progettazione di un impianto idroelettrico? Sono molti. Una diga altera il
flusso di acqua e sedimenti di un bacino con ripercussioni su tutto
l’ecosistema. Il primo aspetto da considerare è probabilmente il posizionamento
e il dimensionamento: la diga a seconda di dove sarà posizionata può avere
effetti da significativi a trascurabili sulla connettività ecologica (si pensi
alla fauna ittica, le dighe spesso non permettono più di raggiungere pregiate
zone di riproduzione a monte) e sulla connettività dei sedimenti (alcuni sottobacini
sono più importanti per l’apporto solido di altri, per cui se la diga
interrompe un importante afflusso di sedimenti ci saranno forti alterazioni
della morfologia a valle con ripercussioni sulla stabilità del letto del fiume
e dei suoi argini, sul livello della falda, sugli habitat e sul ripascimento
delle coste). Una volta decisa con razionalità (si veda sopra) l’ubicazione è
importante decidere le opzioni per politiche di utilizzo (come rilasciare
l’acqua): quanto sarà alterata l’idrologia a valle per massimizzare la
produzione idroelettrica, che effetto avrà questo su ecosistemi, habitat e
trasporto dei solidi a valle. È importante prevedere l’impatto delle politiche
di rilascio e avviare da subito un piano di mitigazioni che può includere svariate
opzioni: il rilascio di piene controllate per ristabilire il naturale ciclo
idrologico la gestione dei sedimenti con installazioni di bocche di fondo o con
rimozione meccanica dei sedimenti dal bacino e reimmisione a valle
l’installazione di scale di risalita per pesci. Le politiche di regolazione
delle dighe andrebbero progettate contestualmente alla diga e al suo
posizionamento Terzo aspetto importante da considerare è l’impatto cumulativo
delle dighe presenti e pianificate in un bacino, altrimenti gli sforzi fatti
per minimizzare l’impatto sull’ambiente da una diga verranno vanificate dagli
altri impianti presenti o in fase di progettazione. Ultima ma importantissima
considerazione è l’impatto sociale delle dighe. Non è il caso dell’Italia o dei
Balcani. Ma per esempio sul fiume Omo (Kenya Etiopia) su cui stiamo lavorando
la costruzione delle dighe altera il trasporto di sedimenti e i sedimenti
ricchi di nutrienti alimentano la pianura alluvionale dove le tribù locali
praticano agricoltura di recessione, pesca e allevamento. Per non parlare del
resettlement delle persone che vivono nello spazio verrà occupato dall’invaso.
Perché costruire ancora oggi delle dighe? Nei Paesi economicamente più avanzati
il potenziale idroelettrico è stato saturato già da molti anni. Gran parte del
lavoro adesso riguarda la manutenzione e in alcuni casi la rimozioni di questi
impianti, quando obsoleti. In Italia e in Europa c’è una grande spinta
recentemente al piccolo idroelettrico. Questa è un tema controverso, poiché la
produzione cumulata del piccolo idroelettrico è davvero poco significativa
(pochi punti percentuali sul totale dell’energia prodotta) e rischia di
frammentare ulteriormente il nostro già compromesso sistema fluviale. Infatti
queste opere sono di piccole dimensioni, ma sono molteplici e vengono ubicate
nei pochi tratti ancora naturali (spesso di montagna) dei nostri corsi d’acqua.
Il loro impatto è modesto ma non trascurabile e il loro impatto cumulato
rischia di essere significativo e fronte di una trascurabile aumento
dell’energia prodotta. Per i Paesi in via di sviluppo con grandi sistemi
fluviali (si veda ail Mekong, il Rio delle Amazzoni, il Cojngo e molti altri)
il discorso è diverso. Spesso qui il potenziale idroelettrico deve essere
ancora sfruttato. In questi contesti è fondamentale sviluppare politiche
energetiche virtuose dove il potenziale idroelettrico è sfruttato fino a una
certa capacità di sistema, cioè non tanto da compromettere troppo l’ambiente e
i servizi ecosistemi da esso generati. I benefici di una corretta
pianificazione energetica che guarda all’impatto cumulato e integra più tipi di
fonti rinnovabili nella sua politica energetica può creare grandi benefici nel
medio futuro. Questo purtroppo non è sempre possibile, poiché la costruzione di
una diga porta spesso ingenti, veloci e locali benefici, mentre i danni sono
comuni, su larga scala e tempi lunghi. Per questa ragione non è sempre facile
innestare un percorso virtuoso in questi contesti, benché le conoscenza
scientifiche sono già tutte disponibile e i vantaggi evidenti. È possibile
ragionare sulla riqualificazione delle vecchie dighe? Da dove partire? Questa
per il prossimo futuro non è un opzione ma una priorità. Gran parte delle
nostre dighe maggiori in Italia, ma anche nel resto d’Europa e negli Stati
Uniti, sono state costruite nel secondo dopoguerra. Gran parte di questi
impianti ha più di cinquant’anni di età e necessità manutenzione e un’analisi
attenta sull’opportunità di rimozione. Questo è un aspetto che richiederà
grandi risorse nel prossimo futuro e specifiche competenze non sempre
disponibili negli enti gestori.
Fonte: Cristina Ceresa, Green Planner Magazine, 20 febbraio 2018
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